Dopo l’Anno Internazionale 2019, la Decade Internazionale 2022-32 focalizza l’attenzione mondiale sull’importanza delle lingue indigene, in Italia dette “dialetti”.

Al ciclo del 2019 il Monferrato aveva partecipato presentando la  rassegna di eventi ed esposizioni TAVOLE A TAVOLA e così ponendo in risalto il nesso tra due linguaggi, quello verbale dialettale e quello “sensoriale” della cucina tipica locale.

Dal 4 all’8 LUGLIO 2022, le giornate inaugurali della decade, la task-force di esperti nella salvaguardia delle lingue indigene è radunata alla sede UNESCO di Ginevra per confrontare testimonianze e opinioni su molte questioni. A un incontro trasmesso anche in diretta mondiale come webinar aperto alla partecipazione del pubblico è stato presentato il repertorio Indigenous Peoples Rights International’s Digest of Legislation and Jurisprudence. In previsione di questo appuntamento nel novembre scorso era stato pubblicato il WAL – World Atlas of Languages (Atlante mondiale delle lingue) che fornisce dati su 8.324 lingue parlate e morte e delle 1.863 attualmente in uso ma per gran parte (più del 40%) a rischio d’estinzione. Alla presentazione dell’Atlante era stato posto in evidenza che oltre a deteriorare il rapporto tra umanità e Madre Terra la scomparsa e perdita delle lingue-madri inficia i risultati degli interventi realizzati proprio agendo nelle prospettive dello sviluppo sostenibile, perché il benessere, la prosperità e la salute delle comunità territoriali dipendono dalla sopravvivenza delle loro culture, perciò dalla vitalità delle lingue indigene che ne sono uno strumento espressivo fondamentale.

Mentre i linguaggi multi-mediali permettono di narrare storie, miti e leggende e rappresentare tradizioni in molti modi, invece solo parlando a modo proprio – cioè nell’idioma, o dialetto, proprio di un posto e della gente che lo abita – nelle comunità territoriali si trasmettono le conoscenze su molte caratteristiche morfologiche specifiche di quella località, sulla rigenerazione delle risorse naturali in loco e sulle piante, sugli animali viventi negli ecosistemi locali, inoltre sulle tecniche che permettono di sfruttare proficuamente e senza sprechi suolo, acqua, vento, fauna, flora,… ogni elemento dell’habitat“La pianta medicinale usata per generazioni dalle popolazioni locali è ancora lì, la natura l’ha preservata intatta e magari cresce più rigogliosa che mai. Ma non c’è più nessuno che sappia come si chiama, quali proprietà terapeutiche abbia, se per ricavarne i maggiori benefici debba essere cotta, essiccata, macerata, se vada ingerita o applicata localmente – osservano i medici su Healthdesk – La pianta esiste viva e vegeta ma nessuno sa più cosa farne. Succede quando ad estinguersi non è una specie vegetale, ma la lingua parlata dalla comunità che ne deteneva i segreti. Scompare un idioma, scompare una cultura, scompaiono informazioni preziose su tante piante che il più delle volte non hanno alcun valore terapeutico reale, ma che a volte potrebbero nascondere qualche beneficio tutt’altro che trascurabile. Lo abbiamo visto per esempio con l’acido acetilsalicilico (aspirina) derivante dal salice bianco (Salix alba L.)”.

Elaborato nel 2005 dall’Università di Oxford e dal 2013 aggiornato dal Max Planck Institute for the Science of Human History, il primo catalogo mondiale delle lingue – WALS – World Atlas of Language Structure – applica alle lingue umane un sistema di classificazione in “famiglie” e “generi” che, curiosamente, riflette quello della tassonomia botanica. La lingua italiana parlata in Svizzera e Italia è codificata ITA / ITA e indicata appartenente al genere “Romance” della famiglia “Indo-European” diffusa nella macroarea “Eurasia”. Nell’elenco ci sono “ITB / EGL – Italian (Bologna)”, “IFI / ITA – Italian (Fiorentino)”, “ITG / LIJ – Italian (Genoa)”, ITN / NAP – Italian (Napolitanian)”, “ITU / PMS – Italian (Turinese)” e “SRD / SRO – Sardinian”, invece mancano lingue e dialetti il cui uso è rilevante in riferimento alle denominazioni delle produzioni agroalimentari ed eno-gastronomiche tipiche di tante località e, proprio per questo, sulle etichette commerciali contrassegnate con i marchi DOC, DOP, IGP e PAT che ne accertano o certificano la provenienza da un’area specifica e la fattura con tecniche peculiari che nella comunità residente in quel dato luogo si tramandano da secoli o addirittura millenni. D’altronde molti lemmi e tante locuzioni dei dialetti italiani rivelano che molte “cose” e tanti ingredienti della cucina regionale hanno origine da luoghi lontani, in tempi remoti esotici.

A testimoniare le correlazioni e le commistioni culturali di cui, come gli incroci tra specie e le familiarità nelle “mappe genetiche” degli esseri viventi, si ritrovano tracce nelle “mappe etimologico-semantiche” dei vocaboli linguistici, che c’è anche un erbario illustrato del XIV secolo che il 13 ottobre 1866 venne acquistato dal British Museum e dal 1877 è conservato nell’archivio di “illuminated manuscripts” (manoscritti e capolavori di ars illuminandi, ovvero antichi volumi illustrati o codici miniati) della British Library.

Nell’ultima riga del testo c’è la “firma” dell’autore, Frater Jacobus phyllipus de padua ordinis heremitarum scripsit (Jacopo Filippo, frate dell’ordine eremitano di Padova), che compose l’opera eseguita tra il 1390 e il 1404 per il signore patavino, Francesco “il Novello” II dei Carrara, che nel 1405 venne deposto e imprigionato a Venezia, dove nel 1406 fu ucciso insieme al figlio erede del titolo. Perciò proprio l’anno seguente a quello in cui il “suo” erbario venne ultimato, il Novello fu l’ultimo carrarese della dinastia ininterrottamente dominante a Padova dal X secolo fino all’inglobamento di città e territorio patavini nella Serenissima repubblica veneta.

ERBARIO CARRARESE – Il blasone dei Carrara dipinto in due “rosoni” delle ghirlande decorative intorno al testo, cioè alla traduzione del “Liber Serapionis” in patavino (nel XIV secolo la lingua padovana, ora un dialetto veneto), e la raffigurazione di un rigoglioso albero di limone.

“Nel corso del Trecento si assiste a grandi cambiamenti nelle rappresentazioni presenti negli erbari che, influenzati anche dalla cultura e dalla medicina araba arrivate in Italia in particolare attraverso la scuola salernitana, cominciano a staccarsi un po’ dalla tradizione classica – è spiegato nella BREVE STORIA DEGLI ERBARI FIGURATI descritta dalla Biblioteca dell’Orto Botanico di Padova – Anche le immagini botaniche si differenziano da quelle dei testi precedenti e per la prima volta emerge l’esigenza di un maggior naturalismo, che porta ad illustrazioni prodotte attraverso l’osservazione dal vivo delle piante e non più attraverso la copia di immagini precedenti o basate sulla sola descrizione testuale. L’esempio più significativo a questo proposito è il cosiddetto Erbario Carrarese o Liber agregà … in cui il testo è accompagnato da raffigurazioni di piante estremamente dettagliate e realistiche, ritenute le prime di questo periodo dipinte osservando il vero. L’attenzione al realismo è tale che le piante sono rappresentate nei loro diversi momenti di sviluppo e in tutte le loro parti (fiori, frutti, radici, retro delle foglie…)”.

Il titolo originale dell’Erbario Carrarese (The ‘Carrara Herbal’) e anche detto Herbolario volgare è El libro agregà de Serapion poiché il suo testo è una traduzione in padovano del Liber aggregatus in medicinis semplicibus, ovvero De simplici medicina, anche detto Liber Serapionis perché scritto nel XII secolo dal medico arabo Ibn Sarabi, soprannominato “Serapione il Giovane”. Nel XIV secolo la coltivazione di erbe officinali – allora dette “semplici” – veniva praticata nei monasteri all’interno di horti conclusi, ossia recintati, denominati horti simplicium. I monaci vi si dedicavano ispirati dalla lettura dei classici, in cui trovavano descrizioni dei giardini di Babilonia, Alessandria e, soprattutto, Pergamo, dal cui Asclepeia (santuario di Esculapio) nel mondo antico si diffuse la scienza medica e dove nel III sec. a. C. il re Attalo aveva raccolto in un giardino molteplici esemplari di piante medicinali e velenose. A sua volta, l’erbario carrarese fu alla base degli sviluppi della ricerca naturalistica germogliata nell’Orto Botanico di Padova, fondato nel 1545 come horto medicinale annesso all’università che dal 1548 venne frequentata dal bolognese Ulisse Aldrovandi, “il maggior rappresentante nell’Alma Mater Studiorum dell’indirizzo naturalistico enciclopedico del XVI secolo” e compositore di uno storico erbario che, come attesta l’apposizione del suo ex libris sul volume, forse si appropriò e sicuramente consultò il prezioso manoscritto patavino che da oltre 150 anni “spicca” nel patrimonio della biblioteca nazionale inglese.

Tra le stupende pagine del carrarese ne proponiamo due, dedicate alla padovana MARIA DELLA FRANCESCA e al ligure MARCO DAMELE perché raffigurano i fiori di camomilla molto simili a quelli recentemente raccolti nei campi della Fattoria ad Altaura di Casale di Scodosia e una pianta di basilico il cui “profumo” anticipa il “gusto” dell’erbario che verrà presentato a Sanremo.

 

STORIA ED ETIMOLOGIA DEGLI ERBARI – di Maria Dalla Francesca pubblicato in LETTERATOUR.IT > leggi l’articolo

 

Condividi